Numero 8, 30 settembre 2023

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Numero 8, 30 settembre 2023

Indice

SPIFFERI

Così Toti paga la campagna elettorale del sindaco di Genova Bucci

Il basilico come la cannabis? Allora si spiega tutto!

Scandalo e indignazione tra i devoti allo specifico genovese ha suscitato la dichiarazione del consigliere comunale felsineo Mattia Sartori, ex sardina (dunque provocatore seriale), che la foglia di basilico è sostanza stupefacente al pari della Cannabis. Al di là della blasfemia contro la religione del pesto, l’abuso di tale sostanza spiegherebbe molti misteri locali: il sorriso vago e inespressivo del governatore Toti come lo sguardo vitreo, in attesa del prossimo sbuffo di furia, del sindaco Bucci. Persino il clima strafatto in cui è stato concepito il sempre più tossico “Modello Genova” si spiega con l’abuso dell’oro verde di Prà. Adesso in Comune prevedono un’azione legale per danni contro il miscredente Sartori. Decisione di certo presa dopo una robusta abboffata a base di pesto.

Genova, nave senza nocchiero in gran tempesta

Etimologicamente governare significa saper condurre il gŭbĕrnum, ossia il timone della nave, cercando ovviamente di non farla finire sugli scogli, visto che il suo carico è composto non solo da merci ma anche da persone. Concetto che Toti&Bucci dovrebbero assimilare, nello specifico per la gestione dei depositi chimici di Superba e Carmagnani a Ponte Somalia, vicinissimi alle case dei sampierdarenesi. Infatti questa assurda opzione, contro la quale sono pendenti al TAR ben quattro ricorsi presentati dai cittadini, è stata subito bocciata dal Comitato Tecnico Regionale: Vigili del Fuoco, Arpal, Inail, Capitaneria di Porto, oltre ai tapini di Tursi e Piazza de Ferrari. Magari prima di decidere belinate sarebbe meglio informarsi sulle alternative concrete, per non mandare a fondo la nave.

La “sindrome Fassino” imperversa a Tursi

Ci risiamo. Dopo l’infelice uscita di Piero Fassino che sventolava il cedolino di parlamentare, lamentandone l’importo e dimenticandosi del bonus alloggio di 3.500 euro e altre quisquiglie tipo telefonini e viaggi gratis, a Genova due consiglieri comunali provano a giustificare così le loro assenze in aula. Il povero dem Ariel dello Strologo confessa che “deve lavorare e non può dedicare troppo tempo all’aula”; gli fa eco e sostegno il collega avvocato Federico Bertorello, leghista. La domanda sorge spontanea: i tapini, prima di candidarsi, non sapevano cosa avrebbe comportato il loro mandato? Chiedono più soldi per poter partecipare. Noi invece proponiamo che chi si assenti salvo giustificato motivo per tre volte dall’aula e dai lavori di commissione, sia automaticamente dimissionato. OK?

C’È POSTA PER NOI

La mini-scissione dal PD genovese di Rossetti, Lodi e una trentina di iscritti, per ritrovarsi sotto le insegne calendiane di Azione, ha suscitato forti reazioni epistolari del collega Nicola Caprioni e dell’amico Matteo Viviano; che riportiamo.

Vogliono scindere il PD ma ignorano il vocabolario

Le dichiarazioni dei pochi fuoriusciti dal PD genovese ripetono quelle della minoranza nazionale anti Elly Schlein: se non sono a loro agio nel PD è giusto che ne escano. Personalmente quando fu fondato, dopo anni di militanza nel PCI, PDS e DS, non vi ho aderito. Quindi, seppur con motivazioni opposte, capisco tale scelta.

Però certe loro affermazioni vanno respinte. Parlano di “perdita della vocazione maggioritaria” e imputano al PD di Schlein l’essere un partito piccolo e pure settario. In realtà le passate performances elettorali non brillavano e la suddetta vocazione suona giustificazione di una linea che ammicca al voto di destra.

L’idea era quella di farne un partito pass-partout con fisionomia indefinita. Una nuova DC interclassista. Linea che è fallita. Lo prova il fatto che il PD da anni non si stacca da percentuali elettorali sul 20%. Mentre, se vuole recuperare i voti dell’elettorato potenziale di un effettivo partito di sinistra, deve risultare credibile per milioni di cittadini vittime di ingiustizie e discriminazioni, condannati a un’esistenza di miseria. Quindi, sconfessare il proprio pregresso. Non basta più un partito che si limiti ad attenuare gli effetti estremi del neoliberismo, sperando che dalla ricca tavola del privilegio caschino briciole di miglioramento per i meno fortunati.

Non può neppure essere il partito che mette insieme sfruttati e sfruttatori; che un tempo esaltava Marchionne e dileggiava i sindacati (Renzi).

Se un po’ di moderati, liberali, democristiani se ne vanno non è tragico. Chi magnifica il Jobs Act e rifiuta il senso originale della riforma sanitaria, chi non vuole contrastare l’evasione fiscale o ha dubbi sul salario minimo, li segua.

Ultima preghiera: amici moderati, non chiamatevi più “riformisti”. Per anni ho militato in quell’ala del vecchio PCI, ho lottato per la sua trasformazione in un moderno partito socialista: un unico partito socialista sorto dalle ceneri di PCI e PSI. I riformisti nella nostra lunga storia non erano i sostenitori del Liberismo, ma coloro che volevano superare il Capitalismo con i metodi democratici della dialettica elettorale.

Riformisti erano Allende, abbattuto 50 anni fa da un golpe militare sanguinario, e Olof Palme, che col piano Meidner promuoveva socialdemocrazia. Il riformismo italiano significò nuova scuola media, nazionalizzazione dell’energia elettrica. E poi Statuto dei lavoratori, 140 ore, riforma del diritto di famiglia e quella sanitaria. Il resto è “aria fritta”.

Nicola Caprioni

La diaspora ligure del PD

Ho dedicato più di vent’anni della mia vita all’impegno politico per la nascita di un partito democratico frutto dell’alleanza tra uomini e donne della sinistra e cattolici (forse meglio Cristiani) progressisti, senza alcuna prevaricazione degli uni sugli altri (e qui male me ne incolse), Ho ancora in un qualche cassetto il certificato di fondatore del PD a firma di Veltroni; ma, preso atto dell’ineffabile percorso intrapreso dal “nuovo”‘ soggetto politico, non mi sono mai iscritto al PD e non l’ho mai votato. Pur tuttavia, pur essendone recentemente fuoriusciti alcuni personaggi, non intendo esprimere il mio consenso ad un partito in cui militano ancora tante barbe finte. Fraterni saluti.

Matteo Viviano (ex Coordinatore Genovese del Movimento per l’ULIVO)

Invito a un appuntamento da non perdere

La Destra sarzanese abolisce la memoria

Paolino Ranieri è una figura mitica della recente storia sarzanese. Antifascista, comunista, condannato dal tribunale speciale fascista. Ha scontato anni di carcere a Fossano e a Turi. Tra i primi organizzatori della resistenza, commissario politico della Brigata Garibaldi Muccini, è stato sindaco di Sarzana dal 1946 al 1972. Presidente storico dell’ANPI è grazie alla sua tenace volontà che in località Prade di Fosdinovo, sulle colline che dominano Sarzana e la bassa Valle del Magra, è nato il primo Museo Interattivo della Resistenza; interprovinciale tra La Spezia e Massa Carrara.

Il museo è stato realizzato in una ex colonia, che i partigiani sarzanesi costruirono con lavoro volontario alla fine della guerra per ospitare i bambini abbandonati.

Da tempo l’ANPI sarzanese chiede alla Giunta di destra del Comune di Sarzana di realizzare un murale dedicato a Paolino sulla facciata cieca della biblioteca comunale. Per tutta risposta la maggioranza sfratta l’ANPI dalla sua sede, per realizzarvi i servizi igienici del palasport per l’hockey. Allora l’opposizione di centrosinistra in consiglio comunale ha proposto di dedicare il nuovo palahockey a Ranieri. Niente da fare: la destra tira fuori dal cilindro il nome sconosciuto ai più di Giuliano Tori, che nel 1946 fondò la locale squadra di Hockey. Incalzata dalle opposizioni ma anche dall’opinione pubblica, la maggioranza si impegna comunque a intitolare a Ranieri qualcosa di importante.

Ma un tal Ceccati, capogruppo di Fratelli d’Italia ed ex leghista riciclato, che nella passata legislatura era stato fatto dimettere per una condanna penale “dimenticata”, ha posto il veto a che si dedichi nel comune di Sarzana una via o una piazza a un comunista.

La sindaca totiana è in imbarazzo: si era impegnata pubblicamente, lo aveva ripetuto in consiglio comunale e inoltre la figura di “Paolino” è ancora molto amata dai sarzanesi.

Che fare? Qui il colpo d’ingegno: intitolargli il museo della resistenza delle Prade di Fosdinovo. Peccato che Fosdinovo non solo sia un altro comune, ma anche un’altra provincia e un’altra regione.

Così toglie le castagne dal fuoco, scaricando il problema su altri. Lei fa una bella figura perché comunque propone di dedicare un luogo di prestigio a Ranieri; ma dà pure soddisfazione ai fascistelli della sua maggioranza che non vogliono dediche “comuniste”.

PS: Il Museo della Resistenza è già dedicato a due comandanti partigiani, Flavio Bertone (Walter) e Alessandro Brucellaria (Memo).

Nicola Caprioni

ECO DELLA STAMPA

Sul tema di Genova presunta capitale del libro (nonostante la carenza di lettori ed editori di profilo nazionale) pubblichiamo un ampio estratto dell’intervento apparso su la Repubblica di Genova del 17 settembre, a firma della consigliera comunale PD Donatella Alfonso, che riprede temi affrontati già in passato dal nostro magazine.

Il sogno, sportivo, de la Repubblica - Genova3000

Capitale libro, l’anno ‘mini’ di Genova

«Al momento, l’anno da Capitale del Libro per Genova sembra essere un romanzo fantasy: la scorsa settimana, alla presentazione del programma, si è appreso che il progetto terminerà nel mese di aprile 2024: se il calendario non ci inganna, da oggi ad aprile ci sono otto mesi, e quindi l’anno è già ridotto. L’anno può quindi ben ridursi, se si va a considerare che, di fatto, alcuni elementi presentati il 7 settembre erano già previsti nei programmi culturali del 2023 e 2024: dal ritorno della rassegna Book Pride (promossa dagli editori indipendenti al Ducale) ai Rolli Days del prossimo ottobre, il Festival della Scienza e l’appuntamento con la Storia in Piazza 2024 dedicata a Libro e Libertà. Scorrendo il programma si vede come l’occasione dell’anno da capitale del Libro, una nomina che negli ultimi anni è andata a piccole città, come Ivrea, Chiari e Vibo Valentia, preveda soprattutto una maniera di mettere in fila una serie di eventi che già c’erano. Ma i libri, in una città che legge – e scrive – tanto, non hanno bisogno solo di eventi spot: e il riferimento più urgente (ci sarebbe da dire molto anche per promuovere l’editoria e gli autori locali, magari con rassegne letterarie ed editoriali mirate) è al sistema bibliotecario urbano.

Ma nel fantasy che è la cultura oggi a Genova c’è un elemento in più, e cioè il fatto che la sua gestione dipenda da un meteo non ben identificato: se si deve far credito alla battuta del sindaco Marco Bucci che ha chiarito che il nuovo assessore “ci sarà quando il tempo cambia” e confermando che, nel frattempo, l’assessore resta lui, incarico che gli sta “piacendo da matti”. Il problema vero resta quello di un sistema della cultura costruito a spot e quasi mai capace di uscire dal centro cittadino. Un sistema peraltro assegnato completamente a consulenti esterni, dovutamente retribuiti, mentre il sindaco, probabilmente si diverte ad ascoltare quello che dicono».

Donatella Alfonso

GLI ARGOMENTI DEL GIORNO

LA LINEA GENERALE

Una visione d’insieme sullo stato dell’arte regionale

L’architetto Marina Montolivo Poletti interviene sul tema sempre aggirato dell’opportunità turistica per una Genova che non sarà mai monumentale come Venezia o Firenze. Un antidoto rispetto a quanto i nostri amministratori continuano a propinarci: l’idea velenosa (e impraticabile) dell’attrattività turistica “a red carpet”, tra l’imbonitorio e il trionfalistico; perseguendo modelli estetici da piazzisti che mixano Disneyland e Las Vegas rivisitate alla Mediaset.

Per un turismo a misura dello specifico genovese

Genova non è città monumentale, seppur non priva di alcuni monumenti celebrativi. Non a caso la dimensione monumentale è quasi interamente chiusa fra le mura di Staglieno, il cimitero monumentale, appunto. Per il resto poca roba: il “ponte monumentale” di via XX Settembre, un po’ di narrazione apologetica in piazza della Vittoria. Genova è città criptica e gelosa della sua storia, costruita e abitata, dal Medio Evo al ‘700, in modo incongruo, promiscuo e non lineare: palazzi nobiliari a fianco di carruggi maleodoranti, tesori nascosti, bellezze da scoprire con pazienza e cultura. Mal si adatta al turismo di massa, fatto di velocità, uno sguardo e via. La figurina attaccata all’albo: Genova, ce l’ho; Venezia, mi manca. Il consumismo inarrestabile della visione imbecille che nulla vede. Quando mi sfreccia davanti il trenino azzurro carico di adulti privi di espressione, il cui unico piacere è proprio il viaggio sul trenino, provo vergogna per loro e la furiosa alterigia da cui forse deriva l’attributo che ci connota: Genova, la Superba. Va aggiunto che queste greggi scaricate dalle navi crociera non lasciano una lira sul territorio, nemmeno un caffè: sulla nave è “all inclusive”. Genova necessita di turismo culturale strutturato, fatto di università specialistiche che attirino studenti da tutta Europa, con quel che ne consegue in termini di prestigio e guadagno. Necessita di qualcuno che sappia conservare e capitalizzare l’enorme patrimonio abbandonato o non sfruttato. Per citare un esempio, le ville di Pegli che potrebbero diventare- come erano state pensate- il giardino botanico più importante del mondo. Genova necessita di un’organizzazione imprenditoriale che venda percorsi turistici da un’ora a una settimana, per esplorare città e territorio.

Il turismo di massa non solo è di per sé fastidioso, in quanto irrispettoso della Storia che calpesta e ignora, ma proprio mal si adatta ad una morfologia urbanistica labirintica, dove ben poco è offerto allo sguardo troppo veloce. Reputo quindi urgente che in merito all’offerta turistica si trovi un tavolo di concertazione che coniughi le peculiarità di Genova, il benessere dei suoi abitanti e un serio rapporto costi/ benefici che giustifichi ogni scelta.

Marina Montolivo Poletti

L’attrazione di flussi turistici in una città non monumentale, seppure ricca di fascino, presuppone la promozione di ragioni “altre” per visitarla. Non certo la situazione attuale, in cui il centro gentrificato delle professioni e del lusso si contrappone con il suo benessere apparente all’inarrestabile declino a Ponente di antiche identità forti: le disperate resistenze di Pegli come quartiere a standing residenziale e Sestri, quale antica cittadella del lavoro; la desolazione lungo il Polcevera delle aree già industriali in piena afflizione post-industriale. Sicché il richiamo turistico richiede anche eventi ad alta visibilità come quelli inventati nel passato. E che ormai risultano mere caricature di se stessi.

Que reste-t-il de ces beaux jours (e delle fiere di allora)

Nei giorni che precedono l’inaugurazione del Salone Nautico genovese la città VIP e il sistema mediatico locale vanno in fibrillazione per l’appuntamento dell’anno. Sebbene l’evento impareggiabile sia ormai secondario, visto che a settembre si tengono identici saloni pure a Cannes e Barcellona. Ma associazioni di categoria e informazione si guardano bene dal segnalare tale declassamento nel timore delle reazioni inconsulte di chi ci governa, che non ammette si discuta il mantra “Genova meravigliosa” e delle sue potenzialità turistiche. Mentre si liquidano importanti risorse di attrattività. Dal Festival della Scienza, ormai una sagra di paese ridotta al trucco di gonfiare per tre il numero dei visitatori, al Salone Nautico, mortificato dalla cancellazione delle infrastrutture espositive del tempo che fu. Quel quartiere fieristico sorto agli inizi degli anni ‘60 in zona Foce, per intuizione del primo presidente Giuseppe De André, a supporto di una presunta vocazione espositiva cittadina. Sebbene presto trasformata in bancomat di interessi politico-affaristici, l’Expo partiva con le dotazioni prestigiose del Salone Nautico ed Euroflora. In attesa di un’adeguata promozione che consentisse all’Ente di raggiungere il numero aureo delle 300 giornate impegnate; per trarre i ricavi necessari alla manutenzione di spazi sottoposti a pesante usura come quelli espositivi. Via percorsa da una fieretta nata nello stesso periodo – Bologna – che divenne un polo importante grazie alle capacità propulsive dei suoi amministratori, intercettando manifestazioni quali Motorshow e Cosmoprof. Mentre Genova covava le sue uova di pietra, entrando già negli anni ‘90 in una spirale di declino; sicché la cosiddetta “dorsale dell’internazionalità” delle fiere italiane si sviluppava altrove (linea Bari-Bologna-Milano-Verona). Se si parlava della Fiera era solo per operazioni scriteriate come la realizzazione del Padiglione “B”, affidato a un architetto senza precedenti nel settore – il francese Jean Nouvel – quanto non per caso sponsorizzato da Renzo Piano. Operazione lievitata nei costi a 43 milioni di euro, con un carico di 34 per il Comune del sindaco Beppe Pericu.

Oggi assistiamo allo smembramento dell’intero quartiere, ceduto alla speculazione. E non ingannino i 4/5 giorni in cui dietro piazzale Kennedy si torna a esporre barche: la storia è quella di un investimento dilapidato per accertata incapacità gestionale.

La dissipazione di capacità visionarie definitivamente perdute.

Pierfranco Pellizzetti

AMBIENTE

La fragile bellezza di uno spazio sotto costante attacco

Il termovalorizzatore sotto la Lanterna: inutile e costoso

Lo scorso agosto la Giunta Regionale Ligure ha varato l’Agenzia Rifiuti. Suo primo

compito è l’approntamento impiantistico per gestire gli scarti liguri, sia differenziati che indifferenziati. Si parla di Trattamenti Meccanico Biologici (TMB) per l’inertizzazione delle frazioni non differenziate e di 4 impianti (uno per provincia) per la digestione anaerobica alla fonte degli scarti biodegradabili differenziati.

L’assessore Giampedrone ha accennato ad un impianto “Waste to Chemical” (composti chimici prodotti dai rifiuti), senza fornire altri dettagli. Invece il presidente Toti ha confermato la sua volontà che la Liguria abbia finalmente un suo “termovalorizzatore”, prevedendone la capacità annuale di 200.000 tonnellate. E – se sarà il caso (quale?) – anche maggiore (quanto?), in modo che possa offrire tali servizi anche ad altre regioni (quali?). Dove si faranno tutti questi impianti non si sa. La scelta della localizzazione sarà compito del Commissario, previa consultazione dei Sindaci interessati. Intanto l’assessore del Comune di Genova Matteo Campora preannuncia parere favorevole, qualora la Regione gli chieda di ospitare l’impianto.

E così, dopo 24 anni di scampato pericolo, sembra si debba vedere un termovalorizzatore sotto la Lanterna. Ossia – dal punto di vista energetico – l’installazione che non valorizza un bel niente. Un costoso e insensato spreco energetico. Infatti gli unici scarti utili sono le plastiche “usa e getta”, tra cui il polietilene. Per produrre un chilo di polietilene – dal petrolio al prodotto finito – occorrono 76 MegaJoule (MJ) di energia, sotto forma di calore ed elettricità. Un chilo di polietilene ha un potere calorifico di 46 MJ: ciò significa che produce energia termica pari a 46 MJ; quantità nettamente inferiore a quella usata per il chilo di polietilene che si vorrebbe termovalorizzare. Ma per le leggi di chimica, fisica e termodinamica, con il termovalorizzatore si può trasformare in energia e calore solo una parte dei 76MJ. Visto che l’efficienza di tali impianti italiani oggi in funzione si aggira sul 25%, l’energia resa disponibile si riduce a 12 MJ. E con 12 MJ di energia si ottengono solo 160 dei 1.000 grammi di polietilene termo-distrutti dall’incenerimento con recupero energetico! Ecco perché ridurre la produzione di beni “usa e getta”, riusare e riciclare, sono scelte obbligate per raggiungere, in Italia e in Europa, una economia circolare a basso impatto. Appunto, intelligente.

Federico Valerio

Continua l’epopea dei cassonetti (seconda parte)

Parlare di cassonetti di qui, di là, belli, brutti, impattanti e non impattanti, è un falso. In verità nelle città dove si fa la raccolta differenziata porta a porta, questo non si pone. Certo, se io destino i vigili per dare multe ai barboni è una cosa, se invece li utilizzo per gestire il traffico e beccare quelli che abbandonano i rifiuti vicino ai cassonetti, ecco che si riduce la sporcizia in città. Sta di fatto che andando a Treviso questi problemi non li trovereste E così per buona parte delle città dove la raccolta differenziata porta a porta si fa seriamente.

Ma allora, voi direte: perché non facciamo la differenziata anche a Genova? Presto detto: se si fa la raccolta porta a porta, in cui tutti devono pagare il loro, ecco che una serie di rifiuti sparirebbero, le cassette della frutta sparse in tutta la città e i contenitori di cartone e plastica, pure quelli elettronici. Il 20-25%, residuale finirebbe comunque in discarica, ma sarebbe selezionato e proprio in alcuni casi anche riciclabile, laddove gestito in tal senso. L’altro modo di fare la raccolta interessa a chi produce i cassonetti, a chi gestisce gli inceneritori, le discariche private, i furbi che infilano nei cassonetti tutto quello che nei cassonetti non dovrebbe andare e che tanto nessuno se ne accorge. Tanto paga sempre pantalone. Quindi, con una raccolta porta a porta meno rifiuti, di cui tutti pagano quello che producono (e ovviamente a tutti interessa produrre il meno possibile), una città più pulita, meno maleodorante, meno piena di cassonetti e mucchi di rifiuti tanto cari ai cinghiali. Facciamo le cose al meglio e vedrete che anche nella nostra città, come altre in Italia, le cose cambieranno faccia.

Post scriptum: auguri alla Soprintendenza che forse farebbe bene a non assecondare comunque gli interessi privati accettando il dato di fatto della raccolta dei cassonetti in tutta la città e promuovendo invece la sparizione dei cassonetti per la raccolta differenziata che sarebbe un atto coraggioso ma tecnicamente del tutto nei compiti di chi è preposto al paesaggio. Come dovrebbe essere una Sovrintendenza. Un paesaggio senza spazzatura nel centro storico, una città senza rifiuti sparsi, una città senza cinghiali che si mangiano i rifiuti è una cosa di cui la Sovrintendenza dovrebbe farsi carico. E siccome già ci sono esempi e tecniche perché tutto questo non avvenga, deve essere suo impegno primario quello di aggiornarsi e occuparsene in maniera effettiva.

Andrea Agostini

POLITICA E ISTITUZIONI

Lo stato dell’arte delle regole e delle pratiche pubbliche

Toti e il partito che non c’è

Dopo aver fallito in coppia col sindaco di Venezia Brugnaro il lancio di un partito nazionale che promuovesse le sue ambizioni oltre gli stretti confini di Liguria, ora Toti lancia una nuova idea: federare tutte le liste civiche, creando una quarta forza di “moderati” indispensabile allo schieramento di destra per vincere le elezioni.

In tale trovata sta tutta la debolezza del Presidente di Regione Liguria, sovraesposto sul piano della comunicazione ma senza un proprio partito. Quindi, ostaggio di FdI, Lega e Forza Italia, che potrebbero liquidarlo in ogni momento. Per questo deve rinfoderare le sue ambizioni nazionali e la sua unica possibilità è quella di restare ancora per un quinquennio alla guida della Liguria.

Si spiegano così alcune scelte solo apparentemente avventate. In primis la mossa, da bambinello lecchino verso la maestra (Giorgia), di ospitare a Vado Ligure l’impianto di rigassificazione che i piombinesi hanno rifiutato.

A Piombino si opponeva perfino il sindaco di Fratelli d’Italia e questo poneva in grave imbarazzo Meloni e il suo governo. Toti le ha tolto le castagne dal fuoco, sperando nella ricompensa della via libera a un terzo mandato.

Così arruola una serie di sindaci liguri presentati come “civici”: i primi cittadini di Genova, Sarzana, La Spezia, Chiavari, Varazze, Sestri Levante e Imperia. In realtà definire “civico” il sindaco di Imperia Claudio Scajola appare un po’ forzato; ma anche gli altri sono spesso tali solo di nome: camuffamenti della loro reale appartenenza allo schieramento di destra per confondere l’elettorato e rendere meno ardua la scelta di votare per partiti reazionari.

Forse la manovra di Toti può servire a imbarcare con posti ben remunerati alcuni renziani; sia migrati sul natante che imbarca acqua di Renzi, sia quelli occultati nel PD, che ora si mettono sul mercato in cerca di ricollocazione.

A Genova i renziani sono stabilmente parte della maggioranza di Bucci, cui si sono aggiunti anche i due consiglieri provenienti dal gruppo di Calenda. La ex sindaca PD di Vado Ligure ha saltato il fosso passando con Toti e venendo remunerata con la presidenza della fantomatica società regionale per i rifiuti urbani e un ricco assegno annuale.

La leader dei renziani liguri Raffaella Paita, numero due di Italia Viva, si è più volte pronunciata a sostegno di Bucci e, da tempo, lancia ammiccamenti a Toti. Ma sarebbe un buon acquisto? Si consiglia di informarsi sul vero peso elettorale dell’ondivaga Lella.

Nicola Caprioni

Opposizione che è sì cara, perché non favelli?

Io vedo associazioni di cittadini impegnati a cercare di salvaguardare la loro salute e il loro territorio da decisioni a volte inspiegabili, perfino in disaccordo non solo con la logica ma anche con le stesse leggi. Dalla lotta contro lo spostamento a Sampierdarena dei depositi chimici, alla contestazione di Sky Metro che costerà circa 40 milioni ai cittadini (l’IVA sul costo dell’opera, non coperta dal PNRR); dalle spese per l’Ocean Race, costate, sempre ai cittadini, almeno 8 milioni; quale spot di una Liguria che non è davvero interessata agli yacht, visto che non arriva a fine mese. Fino a Genova Jeans, che alla città non ha portato niente in passato e che costerà almeno un milioncino, anche se il costo effettivo non si sa. E io vedo anche associazioni impegnate per la conservazione del verde pubblico, polmone di vita per la città di Genova, assediata da lavori che continuano a considerare gli alberi non delle risorse ma meri ostacoli. Ma più o meno sono solo loro: in queste lotte non vedo quasi nessuno di quanti sono stati votati per dare voce e sostegno alle battaglie democratiche. Opposizione non significa chiacchiere autoreferenziali per giustificare il posto occupato, semmai – secondo logica e Treccani – azioni con cui si cerca di ostacolare qualcosa, di impedirne l’attuazione, di fare contrasto e, naturalmente, farlo conoscere; dai rappresentati ai cittadini che li hanno votati. Andate a leggere sul sito della Regione le mozioni, le interpellanze, le proposte e le interrogazioni dei consiglieri d’opposizione (si fa per dire) e troverete che una volta presentate nel 99,9% dei casi sono state ritirate. Cioè il consigliere le ha buttate lì, tanto per far vedere che faceva qualcosa e poi, a risposta avvenuta, se n’è stato: ha preso la sua mozione, se l’è messa in tasca e ne ha cercate altre, tanto per metterle nel curriculum e far vedere che non sta lì a “scaldare” il posto, come si diceva un tempo per chi non studiava sui banchi di scuola: non ha approfondito, non ha contestato, non si è opposto. Mi ricordo Nanni Moretti quando diceva a D’Alema, che stava in silenzio ad ascoltare l’intervista di Berlusconi a Porta a Porta: “dì qualcosa di sinistra, anche qualcosa non di sinistra ma di civiltà”. Forse chi sta sui banchi dell’opposizione ha scambiato sinistra con sinistro, e tace per evitare disastri?

Carlo A. Martigli

Una politica industriale ligure? E l’IIT che ci sta a fare?

Il Fatto Quotidiano del 23 settembre pubblica il profilo a firma Marco Palombi di una delle grandi eminenze grigie della Seconda Repubblica: Vittorio Grilli.

«Chi era costui? Negli anni ‘90 alto dirigente del Tesoro, nei Duemila prima Ragioniere generale dello Stato e poi direttore generale del Mef, infine ministro con Mario Monti: nel 2014 diventa senza imbarazzi presidente di Jp Morgan per Europa, Africa e Medioriente, pur con un occhio particolare al nostro fortunato Paese. In questi giorni è tornato sui giornali: ‘Mediobanca, l’ipotesi Grilli’ (Corsera). Costui, che fu consigliere di Leonardo Del Vecchio e l’uomo dietro la guerra iniziata dal fu patron di Luxottica dentro Mediobanca e Generali, ha però un problema nell’intrufolarsi ai vertici di piazzetta Cuccia: ‘Il conflitto d’interessi frena Grilli’ (La Stampa 22 settembre). Essì, il problema che Jp Morgan e Mediobanca sono due banche d’affari concorrenti. Ma se uno è ubiquo, che ci deve fare?». Questo per dire il tipo. Che qui ci interessa in quanto promotore dell’Istituto Italiano di Tecnologia a Morego. A detta di Palombi, «bizzarro divoratore di fondi per la ricerca che a sua volta ci ha regalato Roberto Cingolani». Fondi pubblici che – se non sbaglio – sono 150 milioni di euro annui, che nessuno sa come vengano spesi; da un Istituto destinato sulla carta al trasferimento tecnologico, risorsa indispensabile per un’area in piena de-industrializzazione. Al tempo stesso terreno primario per un Ente Regione che volesse programmare effettive strategie di uscita dalla crisi. Ma da sempre i nostri amministratori nutrono timori reverenziali da parvenu nei confronti della leva tecnologica. Valeva per Sandro Biasotti e Caudio Burlando; vale per gli attuali, che ora mistificano la politica industriale con turlupinature semantiche (“pesto oro verde”, “medicina computazionale”, ecc.). Mentre i nababbi di Morego ci intrattengono con i loro effetti speciali che non producono utili rimbalzi sul territorio. E robuste dosi di paternalismo buonistico. Alberto Diaspro, sorridente capo del settore Nanofisica, celebra il ventennale IIT postando su Fb che il personale amministrativo e tecnico «è al fianco dei ricercatori con un sostegno totale. Tutte persone, pur non avendo un ruolo diretto nel lavoro di ricerca, fondamentali per garantire al laboratorio un percorso sostenuto da supporti totalmente disponibili e appassionati». Dimentica il loro inquadramento precario, secondo i dettami dello sfruttamento Neolib.

Pierfranco Pellizzetti

SPAZIO E PORTI

Traffici e infrastrutture nella prima industria ligure

La presidenza Signorini merita un monumento o una colonna infame?

Nel porto di Genova del ‘900, la cui storia coincide con quella del Consorzio Autonomo, i principali presidenti avvicendati a Palazzo San Giorgio vennero immortalati con l’intitolazione di siti dello scalo. Al primo presidente, il generale garibaldino Stefano Canzio, nel 1903 toccò la calata all’ingresso di levante, al senatore Nino Ronco, presidente dal 1909, il molo alla foce del Polcevera, all’ammiraglio ed esploratore Umberto Cagni commissario dal 1923 il molo vicino al porticciolo Duca degli Abruzzi. La fila degli eletti è terminata con l’ing. Carlo Canepa (da non confondersi con il Giuseppe del Lungomare), presidente dal 1945 e al 48, cui è stato intitolato il ponte a levante del Ronco. Da allora, generali, ammiragli, periti, professori, manager, consoli, avvocati, broker, politici, sino al funzionario pubblico Paolo Emilio Signorini, si sono succeduti alla presidenza senza ricevere tale riconoscimento. È pur vero che Signorini è ancora vivente, inoltre si è dimesso solo da poche settimane. Tuttavia, la riposta data a un giornalista che gli chiedeva che voto dare al suo mandato – risposta: 8 – suggerisce che freme di comparire nel pantheon portuale. Stante che Marco Bucci pretenderà l’intitolazione della nuova diga, come avvenne nell’800 con Raffaele De Ferrari Duca di Galliera (il cui merito furono i milioni lire che sborsò di tasca propria) ho fantasticato su quale luogo del porto si potrebbe associare al nome di Signorini, stante l’intasamento. Il punto ideale sarebbe Ponte Somalia, per il quale Signorini passerà alla storia, sebbene in negativo: per aver ceduto agli interessi elettoralistici del sindaco Bucci concedendo detto Ponte a una impresa chimica privata, per un trasferimento a forte rischio di incidenti. E si tratta di un’area portuale pregiata sotto il profilo commerciale, occupazionale e dell’agibilità nautica, per cui la sua perdita significherebbe depauperare gravemente il valore economico e sociale del bacino di Sampierdarena, la sicurezza dei lavoratori e delle abitazioni circostanti; alla cui tutela e sviluppo dovrebbe essere deputato in via esclusiva proprio il presidente del porto. Ponte Signorini invece di Ponte Somalia sarebbe dunque una sorta di colonna infame per costui, a causa del tradimento e della successiva diserzione dal ruolo pubblico in favore di una poltrona apicale di un’azienda partecipata dal Comune; procuratagli immeritatamente dal punto di vista professionale da Bucci, quale contropartita dei servigi resi.

Riccardo Degl’Innocenti

SALUTE E SANITÀ

La prima tutela in una regione che invecchia

Sanità pubblica: un ghiacciaio che si scioglie sotto gli occhi di tutti

La sanità pubblica resiste grazie al lavoro tenace e competente degli operatori sanitari. Medici, biologi, farmacisti, chimici, fisici, psicologi, infermieri e tecnici che continuano a prestare la loro opera su una barca che affonda; o, con l’immagine della Fondazione Gimbe, “un ghiacciaio” in lento ma inesorabile scioglimento. Questo non è a costo zero: il malessere è evidente, confermato dal numero di dimissioni volontarie. Secondo la recente indagine di ANAAO Giovani, del principale sindacato di categoria, il medico dei nostri ospedali è stressato, costretto a lavorare oltre il turno notturno e talora impossibilitato a godere della pausa pranzo. I carichi di lavoro sono sempre più pesanti, effetto di tagli dei posti letto che continuerà anche dopo l’adozione dei recenti standard.

Tuttavia non si può dire che ora la crisi della sanità pubblica sia ignorata, se è vero che perfino la Presidente del Consiglio, forse per la prima volta negli ultimi quindici anni, pone la sanità come priorità della manovra finanziaria, per l’impatto che la crisi sta avendo “su famiglie e natalità(!)”. Ma non ha molto senso un incremento di fondi che non vincoli le Regioni all’inversione di tendenza rispetto alla privatizzazione strisciante e lo spreco di risorse. Ad esempio spreco rappresentato dai provvedimenti messi in atto per dribblare il rigido tetto di spesa per le assunzioni di personale. Si tratta di contratti atipici, consulenze o formule per reclutare “medici a gettone” che lavorano “a cottimo”, pagati più dei dipendenti senza dover rispondere a standard orari o di qualità; sotto la voce “beni e servizi” che non ha limiti. La Liguria negli ultimi anni ha speso 4 milioni, 3 milioni nel 2022; dati comunicati in Consiglio Regionale. Il ricorso ai “gettonisti” ha riguardato per lo più le Aziende Sanitaria del Ponente, ASL3 e i grandi ospedali genovesi sono riusciti a evitare questa pratica.

Il 28 settembre è stato firmato il contratto 2019-21 dei medici e dirigenti sanitari, con una cauta soddisfazione nel sindacato che conquista normative sulle condizioni di lavoro più che economiche. Che sia la volta buona per imboccare la strada di una seria riforma che immetta risorse, migliori l’indirizzo dello Stato sulle Regioni, con un più attento monitoraggio nel rispetto dei rispettivi poteri? Sempre che l’autonomia differenziata non dia il colpo di grazia al servizio sanitario e la campagna elettorale già in atto non fagociti gli interessi del Paese in quelli dei candidati.

Nuccia Canevarollo

A proposito del continuo malgoverno sanitario ligure, riceviamo questo preoccupante aggiornamento dal capogruppo PD in consiglio regionale Luca Garibaldi:

Ospedale a Erzelli? Il rischio di un nuovo caso Felettino

L’Ospedale a Erzelli – 400 milioni di euro investiti, ospedale del ponente genovese e centro per la medicina computazionale finanziato con il PNRR – è il fiore all’occhiello della riforma sanitaria di Toti. E si è fermato già alla prima curva.

Infatti, dopo anni di ritardi nell’acquisto delle aree, ora sono in discussione anche i finanziamenti. Ed è arrivata in aula dalla Giunta la conferma della proposta di un project financing per la realizzazione del progetto.

A differenza di quanto aveva dichiarato Toti alle prime ipotesi del coinvolgimento di un partner privato, affermando che Inail avrebbe continuato a finanziare il progetto, l’ipotesi di project financing proposta dal partner – la GHT – è ovviamente alternativa al finanziamento pubblico di 280 milioni che avrebbe coperto più della metà delle spese previste dell’opera.

Il protocollo d’intesa è molto chiaro, e parla della presenza di Inail, la Regione ha detto di rispettare il protocollo di intesa, ma scopriamo che in realtà c’è una proposta diversa. Peraltro già adottata in Liguria con la non felice esperienza del Felettino a Spezia, dove il pubblico pagherà 15/20 milioni di euro l’anno di canone al privato che realizzerà l’ospedale. In gioco, se i lavori non si concluderanno entro il 2026, ci sono anche gli oltre 60milioni di fondi PNRR che dovranno servire per il centro computazionale. 

Ora è fondamentale capire perché rispetto a un investimento interamente pubblico, quello che finora era stato promesso, si preferiscano altre strade. Toti venga in aula e chiarisca quali sono le sue intenzioni: la Regione manterrà il rapporto con Inail? O sceglierà un partenariato pubblico-privato, con il rischio di nuovi canoni d’affitto?

Luca Garibaldi

FATTI E MISFATTI

Affarismi (o peggio) e miserie del potere, locale e non

Minori a Genova? Mettiamoli nei container

Migranti a Genova, la Caritas attacca: “Le tendopoli non sono una risposta”  - Il Secolo XIX

Appartamentini per bambini stranieri allestiti da Bucci

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Più volte la nostra ‘Newsletter’ ha descritto Genova come una città ostile ai più giovani. Mai avremmo creduto, però, che da parte del Comune questo atteggiamento si spingesse all’iniziativa crudele quanto ottusa di relegare i cosiddetti MSNA (minori stranieri non accompagnati) in alcuni container collocati su un piccolo spiazzo, tra un muro e uno strapiombo, sotto a un edificio dichiarato pericolante e inagibile, senza tombini né canali di scolo, all’estrema e abbandonata periferia, tra Begato e Rivarolo. Un non-luogo, addirittura senza nome.

Il quadro predisposto dal nostro illuminato Comune è completato da una recinzione invalicabile, vegliata da occhiuti vigilantes: in sostanza un carcere per minori, ma innocenti, privi di adeguata assistenza e senza nemmeno un cortile per giocare a pallone.

Conosciamo il sindaco Bucci come uomo incapace di ironia: era serio, quindi, nel definire i container ‘comodi appartamentini’ che già avevano ospitato gli operai di un cantiere, soggetti dalle esigenze notoriamente analoghe a quelle dei MISNA.

Il tutto, come di consuetudine, senza curarsi di consultare o almeno avvertire gli abitanti del quartiere. Ma è anche questo nella logica dell’amministrazione. Logica – c’è purtroppo da riconoscere – che ha anche una sua perversa ragionevolezza. Infatti era prevedibile che quegli abitanti si sarebbero ribellati: non tanto in nome dei minori, ma soprattutto preoccupati dalla loro pericolosa vicinanza. Non si sa mai.

Quei ragazzi? Meglio tenerli in gabbia e il più possibile lontani dall’abitato.

La responsabilità di una scelta così sciagurata è tutta del Comune, del resto già segnalatosi nell’affrontare la questione migranti in termini di emergenza e non di accoglienza. Burocratico pressapochismo, indifferenza nei confronti dei più fragili e serena irresponsabilità caratterizzano anche questa vicenda.

Per la quale non è neppure possibile chiamare in causa il governo centrale e il quadro normativo in materia. Infatti nel nostro ordinamento la protezione dei MSNA è assicurata da molteplici disposizioni, forse ignorate dai nostri amministratori.

Pensare che l’Italia – una volta tanto – è il solo paese europeo che nel 2017 ha approvato la legge n.47, c.d. ‘legge Zampa’, dotandosi di una normativa specificamente rivolta ai minori stranieri non accompagnati e alla loro tutela.

Ma – come è noto – Genova non è una città per giovani.

Michele Marchesiello

Decimazioni nella scuola ligure, discriminazioni per l’entroterra

La Regione Liguria taglia 15 scuole su 185. Dopo le promesse del COVID, i buoni propositi per l’utilizzo dei fondi PNRR e gli impegni solenni dell’assessore regionale Ferro, garante che le scuole liguri non sarebbero state toccate e – soprattutto – che si doveva mantenere la presenza di strutture scolastiche nelle aree disagiate e interne. Ora Ferro, dopo tre mesi, si rimangia la parola data e procede a quanto aveva negato. Ovviamente le zone colpite sono quelle più disagiate dell’entroterra.

Dovremmo aprire una seria riflessione e – magari – dare una scrollata al primo amministratore che si riempie la bocca parlando di sviluppo per tali aree regionali; cui abbiamo sottratto buona parte del Trasporto Pubblico Locale e il presidio sanitario; tanto che in diversi comuni non si trovano più nemmeno i medici di base. Intanto le politiche dei grandi centri commerciali hanno fatto chiudere tante piccole attività commerciali, impoverendo il territorio e creando non poche difficoltà alla popolazione, prevalentemente composta da anziani. Ora gli tagliamo le scuole.

Come ci si potrà lamentare dello spopolamento dell’entroterra? Se si colpiscono le condizioni minime dell’abitare, come la scuola per i figli, un poco di assistenza sanitaria, i i collegamenti e persino chiudono i rari negozietti, sarà ben difficile continuare a risiedervi. Le misure proposte dal governo nazionale prevedevano l’eliminazione di 15 scuole in Liguria, senza studi preventivi e conoscenza del territorio. La Regione, dopo aver affermato a parola la difesa delle scuole liguri, ha provveduto di buon grado a effettuare la decimazione. Mentre altre realtà regionali – in particola Toscana e Campania – hanno fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro il dimensionamento scolastico previsto dalla legge di bilancio dello scorso dicembre. In quanto costringe ad accorpare istituti riducendo in modo unilaterale gli organici scolastici. Nel frattempo avremo il taglio delle classi: 58 in regione di cui 37 a Genova e 7 nelle altre province; con il conseguente rischio di perdita del lavoro per una sessantina di insegnanti nel Genovesato, di cui 7 nella sola Chiavari.

Anche sotto questo aspetto è in atto una tendenza regressiva. Il taglio più drammatico riguarda la scuola dell’infanzia, dove vengono eliminate 15 classi. Una diminuzione che colpisce, ancora una volta, le aree più disagiate; ma che è anche una decisione contro le donne, abolendo ormai indispensabile per il lavoro femminile.

Nicola Caprioni

UNO SGUARDO DA LEVANTE

Cosa bolle in pentola nell’Est ligure? Testimonianze

Toponomastica del potere spezzino:

luoghi della strategia o della mediazione?

Anche a La Spezia la crisi ha colpito duro. Storiche imprese hanno chiuso, aziende come OTO-Melara e Termomeccanica si sono ridimensionate, l’arsenale dei 10.000 operai si è ridotto a poche centinaia di addetti. Eppure tra le province liguri mantiene la più alta presenza industriale. Ma quanto ciò incide sui processi decisionali di una città le cui scelte economiche risultano decise altrove?

Alla sua nascita il ruolo dominante fu quello della Marina Militare, che qui realizzò l’arsenale dell’Italia unita e la prima base della flotta; inducendo la crescita di un indotto marittimo. Sino alla fine del secolo scorso l’Ammiragliato determinava persino i tempi della vita urbana e la città si spegneva al coprifuoco. Ma già si affermava quale centro di potere la Cassa di Risparmio. Nel fertile rapporto dal dopoguerra tra il presidente di CariSpezia, l’avv. Franco Franchini, e il senatore, poi sindaco, Flavio Bertone; entrambi sarzanesi ed ex partigiani. La partnership nel governo cittadino portò sviluppo, seppure con inevitabili storture di tipo verticistico.

Dopo di loro tentano l’ascesa a cityboss Lorenzo Forcieri, senatore PD già sindaco di Sarzana, e Luigi Grillo, ex DC scuola tavianea, poi passato alla corte di Berlusconi; forte dei suoi rapporti con il governatore di Banca d’Italia Antonio Fazio. Un revival di basso profilo rispetto alla precedente leadership, che ha soffocato la città.

Altra cattedrale civile è Camera di Commercio. Un ruolo importante vi giocano i segretari generali che controllano “la macchina” e il potere reale; assumendo il tipico profilo da “Cardinal Mazzarino”: il segretario della Camera spezzina Stefano Senese diverrà segretario generale all’unificazione delle CCIAA liguri: l’improbabile Camera delle Riviere che assomma le realtà disomogenee di Imperia, Savona e La Spezia.

Con la nascita della Port Autority ecco il terzo centro di potere. L’ex senatore Forcieri andrà a presiederla aprendo un duro conflitto con il Comune. Il disegno è quello di conquistarlo. Ma l’operazione fallisce e dopo quasi 50 anni le sinistre perdono la poltrona di sindaco. A conferma di un’impressione complessiva: i luoghi del presunto comando spezzino sono – in realtà – tavoli di composizione dei rapporti di forza tra notabili, più che effettivi centri decisionali. Per cui in città perdura il deficit di capacità strategica per controllare le spinte esterne e creare aggregazioni civiche. Quelle al tempo dell’asse tra il DC Franchini e il PCI Bertone.

Nicola Caprioni

UNO SGUARDO DA PONENTE

Cosa bolle in pentola nell’Ovest ligure? Testimonianze

El pueblo unido jamás…a Ponente

La riqualificazione del quartiere di Prà fu interrotta e stravolta negli anni ‘90 dalla costruzione del nuovo porto container. La partita è ancora aperta né si vuole ripetere gli errori del passato. A Palmaro ci si batte per una rigenerazione del quartiere, anch’esso trasfigurato dal porto. Voltri e Pegli, laddove la spiaggia resiste, continuano a vigilare per non subire nuovi interventi invasivi e inquinanti. A Multedo si attende da 35 anni lo spostamento dei depositi chimici e si convive con il Porto petroli. Sampierdarena lotta per non essere vittima sacrificale di Bucci e Signorini incapaci di trovare un sito sicuro ai depositi di Multedo, a vantaggio degli interessi della giunta comunale a levante. Queste le voci nell’assemblea dei comitati del Ponente, venerdì 15 a Prà; in cui è stato respinto lo stigma offensivo addossatole da Bucci e Toti: la cosiddetta sindrome NIMBY (Not In My Back Yard, “non nel mio cortile”). È paradossale non si riconosca al Ponente di essere da oltre un secolo il “cortile” dove si concentrano le più gravose servitù industriali, portuali, viarie e ferroviarie della città. Servitù che hanno tradito le promesse che giustificavano i sacrifici del territorio. Suona provocatorio che oggi gli si voglia imporre nuove gravami senza confronto democratico e senza analisi attendibili su costi-benefici. Esemplare la vicenda dei cassoni della nuova diga sul “dentino” di Prà, gestita da Bucci da vero autocrate. Per non parlare della nuova diga progettata per il solo porto di Sampierdarena omettendo gli scali di Prà e Vado, mistificando le tendenze dei traffici container. In particolare, il porto di Prà, progettato per 2mil di teu, lavora oggi al 75% e le prospettive vanno peggiorando; nel frattempo lo Stato ha finanziato due terminal concorrenti (Vado e Bettolo) con capacità complessiva di 1,7 mil. di teu che ne movimentano attualmente solo il 25%. Nonostante questo, Bucci, d’intesa con Confindustria, pretende di inserire nel nuovo Piano Regolatore Portuale un ampliamento dell’attuale porto di Prà verso Voltri.

Di fronte ai cambiamenti geopolitici, all’impellente sfida energetico-climatica e alla crisi economica, invece di consolidare l’offerta portuale e innovarne con lungimiranza la qualità, Bucci e Toti eludono il confronto democratico consegnando il futuro del porto ai disegni di breve respiro delle imprese private. Una politica sconsiderata che ora trova a Ponente un’opposizione consapevole e determinata.

Riccardo Degl’Innocenti

PASSEGGIATE D’ARTE

Le bellezze dimenticate da riscoprire

La misteriosa iscrizione delle api

A Genova, in Via del Campo 1 troneggia il palazzo Gio Batta Centurione, come da iscrizione sul secondo cornicione marcapiano che recita in latino: “Col favore di Dio Battista Centurione di Cristoforo costruì questa casa nel proprio terreno dalle fondamenta l’anno 1612, non per lasciare nome di sé, che questo propose di acquistarsi con la virtù, ma per uso proprio e dei suoi posteri e per ornamento alla città”. Dopo l sua morte il palazzo passa al fratello Filippo, perché l’unico erede diretto Davide con una scelta “scandalosa” abbandona famiglia e ricchezze per entrare nell’ordine dei Carmelitani Scalzi. Filippo destina il palazzo al figlio Agapito. Dal 1664 il palazzo viene inserito nel sistema dei rolli (II bussolo) e resterà di proprietà dei Centurione per tutto il XVIII secolo. Un palazzo strepitoso sia dal punto di vista esterno che interno, custode di opere dei più grandi maestri barocchi genovesi: Bernardo Strozzi, Domenico Piola, Bartolomeo Guidobono e Gregorio De Ferrari. In occasione dell’apertura dei rolli, una da non mancare!

Ma c’è un particolare curioso sulla facciata: l’iscrizione “Sic nos, non nobis”: “così noi, non per noi”. Probabilmente una variazione sulla locuzione “Sic vos non vobis”, attribuita al poeta Virgilio: ciò che facciamo non è a nostro vantaggio. Ovviamente un motto che vuole esaltare la famiglia Centurione della quale si mette in rilievo la probità morale che ha per fine il bene del prossimo. La frase secondo la tradizione è attribuita a Virgilio che aveva iscritto sulla porta della domus Augustea una poesia, ma un poetucolo se ne era preso merito ed elogi, dichiarando di esserne l’autore. Allora il vero autore aveva ripreso il “sic vos, non vobis” preceduto dall’esametro “Hos ego versiculos feci, tulit alter honorem“(questi versetti li ho fatti io, ma se ne prese il merito un altro). “Sic vos non vobis mellificatis apes“(Allo stesso modo voi non per voi producete il miele, o api).

Il verso dedicato alle api è stato sempre citato quale exemplum di operosità; addirittura da Palmiro Togliatti. Come disse nella campagna elettorale del 1963 “Il vero problema è che lo sviluppo economico finora è stato regolato, essenzialmente, dalla dura legge del profitto nell’interesse del grande capitale e dei ceti privilegiati. Il popolo ha lavorato forte. Ma è accaduto come per le api dell’amaro verso col quale Virgilio accusava i profittatori dell’opera sua; ricordate: ‘Voi fate il miele oh api, ma sono altri che lo godono’.”

Orietta Sammarruco

GENOVA MADRE MATRIGNA

Al centro di una regione centrifuga

Lo sviluppo tessile nel Levante soffocato dalla politica genovese del ‘500

L’epopea di Genova, centro finanziario del sistema-Mondo nel XVI secolo, ci è stata raccontata da grandi storici novecenteschi dell’economia; meno gli scontri di potere che asservirono il Genovesato di levante agli interessi dei “Grandi Vecchi” della città, l’oligarchia dei banchieri al servizio dell’impero spagnolo, a danno dei “nobili nuovi”; il ceto imprenditoriale legato allo sviluppo manifatturiero del tessile tra Zoagli e Lorsica. L’insediamento artigiano, partito dalla costa ed esteso all’entroterra, che risale al Medioevo per sfuggire ai vincoli imposti dalle corporazioni urbane; trasformatosi nel XVI in un vero cluster proto-industriale specializzato nella produzione di damaschi e tessuti serici per la domanda di beni di lusso delle corti del tempo. In particolare francese.

Prendono così avvio due modelli economici – uno finanziario, l’altro produttivo – destinati a entrare in collisione. Quello circoscritto a «un piccolo gruppo di uomini accori e informati, che tiene in mano la rete delle degli scambi e con ciò domina il gioco della speculazione» (Fernand Braudel, Collège de France) opera nel quadro europeo che vede arrivare a Siviglia le montagne di metalli preziosi delle Americhe, necessari per pagare il soldo alle armate mercenarie spagnole acquartierate nei Paesi Bassi. Afflusso reso problematico da un duplice blocco: territoriale (l’interposizione della Francia) e marittimo (i corsari inglesi, minaccia costante dei galeoni in navigazione attraverso la Manica). Blocco aggirato dai banchieri genovesi trasferendo non oro o argento ma lettere di credito, che saranno scontate dai partner finanziari ad Augusta (Charles Kindleberger, MIT). Da qui il conflitto genovese in politica estera: i manifatturieri necessitavano di consolidare il rapporto con Parigi, mentre i signori del denaro perseguivano uno stretto legame con Madrid, mortale nemica dei francesi. E furono questi ultimi a trionfare, grazie alle risorse militari di Andrea Doria che impose la costituzione aristocratica genovese del 1528. Inizia da qui il declino della tessitura locale, cui il mercato francese sopperirà con la produzione interna nella Manifacture Royale promossa dal ministro Colbert un secolo dopo. A fronte del rapido declino a Levante: dalle 500mila libbre di tessuto esportato nel 1565 si scendeva alle 50mile di fine ‘600. Mentre i 25/27 mila tessitori della zona perdevano il lavoro finendo in miseria. E Genova consolidava il profilo che Braudel definisce “opulento e sordido”.

Pierfranco Pellizzetti

Il monopolio genovese sui tessuti preziosi del Levante fino al ‘700

Ai primi d’ottobre torna la manifestazione Genova Jeans per raccontare una pagina di storia adattata alla cultura degli eventi; cioè attribuendo centralità ad aspetti puramente modaioli. Mentre, se studiassimo la storia del nostro tessile, faremmo scoperte importanti; ben più della questione jeans: le lavorazioni dei nostri antichi tessitori suddivise per tecniche e materie prime, con l’industria della seta già presente nel XV° secolo. Attività non riducibili alla sola Genova. Nel capoluogo si concentravano le corporazioni e le magistrature aristocratiche a tutela del monopolio commerciale di tali prodotti. Ma i dati evidenziano quanto fossero radicati nel Levante i telai e – a seconda dei comuni – le specifiche lavorazioni; sia seriche, per damaschi e velluti, che le telerie in canapa, lino e cotone.

Confermando vocazioni e tradizione del circondario, nel solo Tigullio erano censiti 5.562 addetti alla tessitura. Sotto il controllo della “Volta della Seta Genovese”, un settore volutamente frazionato. In cui il distretto di Levante e i comuni del Chiavarese ricevevano i semilavorati da portare a finitura; che, una volta completati, rientravano a Genova per essere avviati ai mercati controllati dalla Magistratura dei Tessitori. Dai dati del tempo abbiamo un quadro preciso delle attività collaterali (pettinatori, scardassatori, filatori e dipanatori) con 535 addetti; mentre il centro rivierasco si era specializzato in merletti e frange (tombolo e macramè) impegnando 4.656 operatori: il tombolo era lavorato a Rapallo (2.282 addetti), Santa Margherita (1954) e Portofino (350). Il macramè – concentrato su Chiavari – occupava 68 lavoranti frangiai.

Il peso del controllo genovese sul mercato balza in tutta evidenza nella stagione giacobina che, abolendo i privilegi della nobiltà, sciolse anche le corporazioni. Così gli addetti alle migliaia di telai del Tigullio diventarono liberi artigiani, ma senza sbocchi commerciali la loro straordinaria manualità finì per risultare vana. D qui un inesorabile declino. Nel XIX° secolo sopravvivevano solo specifiche lavorazioni, talvolta per il mercato ecclesiastico. Si tenterà di riprendere le produzioni dei bachi da seta, ma altri centri avevano raggiunto specializzazioni tali da marginalizzare il Tigullio. Oggi sopravvivono lavorazioni a Zoagli e Lorsica, per cui andrebbe valorizzato chi realizza ancora ai nostri giorni prodotti d’eccezionale storicità. Se la cultura degli eventi non preferisse il neo folclorismo dei jeans.

Getto Viarengo